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Blue Economy, in Italia conta 228.000 imprese

La Blue Economy in Italia conta ben 228.000 imprese, che offrono lavoro a quasi 914.000 persone e generano un valore aggiunto di 52,4 miliardi di euro. Considerando l’intera filiera diretta e indiretta, il valore arriva addirittura a 142,7 miliardi di euro. Si tratta di un settore in significativa crescita: tra il 2022 e il 2021, il numero di imprese legate al mare è aumentato dell’1,6%, le esportazioni sono cresciute del 37% e il valore diretto prodotto è aumentato del 9,2% tra il 2021 e il 2020. Questi sono alcuni dei dati presenti nell’XI Rapporto sull’Economia del Mare dell’Osservatorio Nazionale sull’Economia del Mare (OsserMare) di Informare con il Centro Studi Tagliacarne – Unioncamere.

L’Economia del mare vale 143 miliardi di euro

“L’Economia del Mare, considerando sia la componente diretta che quella indiretta, arriva a circa 143 miliardi di euro, corrispondenti a quasi il 9% del valore aggiunto complessivo, con una forza lavoro di circa 914.000 addetti”, sottolinea Antonello Testa, coordinatore nazionale di OsserMare. Durante la presentazione al 2° Summit Nazionale sull’Economia del Mare Blue Forum a Gaeta, Testa ha affermato che l’XI Rapporto Nazionale rappresenta uno strumento evoluto che permette di monitorare le dinamiche di questo importante settore marittimo in modo scientifico e inequivocabile. Aggiunge che conoscere i valori economici aggiornati dell’Economia del Mare è fondamentale per definire la strategia marittima della nazione.
“La Blue Economy si è dimostrata leader di resilienza e sviluppo nel nostro Paese”, afferma Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi Tagliacarne. Nonostante la pandemia abbia colpito duramente settori come il turismo e la movimentazione di merci, la Blue Economy ha registrato un tasso di sviluppo del valore aggiunto del 9,2% nel 2021, superando il dato complessivo nazionale del 6,4%. Esposito anticipa un ulteriore sviluppo nel 2022, che permetterebbe di superare i livelli di prodotto del 2019 del 9%, grazie soprattutto ai risultati positivi della cantieristica e della logistica.

Sistema mare, crescono i servizi di alloggio e ristorazione

Tra i comparti che trainano il recupero del “Sistema mare”, escludendo l’industria delle estrazioni marine, si evidenziano i servizi di alloggio e ristorazione, che hanno registrato un aumento del valore del 22,1% tra il 2021 e il 2020. Seguono la cantieristica (+11,7%) e la filiera ittica (+8%). Tutti gli altri comparti presentano andamenti positivi, come le attività sportive e ricreative (+5,4%), le attività di movimentazione di merci e passeggeri via mare (+5,1%) e le attività di ricerca, regolamentazione e tutela ambientale (+0,4%).
Oltre il 60% della ricchezza prodotta dal mare proviene dal Centro e Sud Italia. Nel 2021, l’economia del mare ha generato un valore aggiunto di 52,4 miliardi di euro, attivandone altri 90,3 miliardi nel resto dell’economia. In termini di “fare filiera”, la Blue Economy arriva a generare complessivamente 142,7 miliardi di euro, corrispondenti all’8,9% dell’intera economia nazionale. La ricchezza diretta prodotta dal Sistema mare ribalta la tradizionale dicotomia Nord-Sud, con il Centro che contribuisce per il 31,1% (oltre 16 miliardi di euro) e il Mezzogiorno per il 30% (oltre 15 miliardi di euro). Il Nord-Ovest rappresenta il 20,7% e il Nord-Est il 18,2%. La Liguria si distingue come la regione con il maggior peso della produzione dell’economia del mare sul totale regionale (11%).

Cantieristica al top per le esportazioni 

La cantieristica si conferma il settore trainante delle esportazioni, con una crescita del 40,7% nel 2022 rispetto al 2021, mentre l’intero export della Blue Economy registra un aumento del 37,4%. Per la prima volta dopo oltre un decennio, il saldo commerciale risulta positivo, con un avanzo di 1,9 miliardi di euro nel 2022 rispetto a un passivo di 1,6 miliardi nel 2021. La cantieristica accompagna l’aumento delle vendite all’estero con una significativa riduzione del valore delle importazioni (-58,6%).
L’economia del mare comprende un universo di 228.000 aziende nel 2022, corrispondenti al 3,8% del totale delle imprese italiane. Quasi una impresa su dieci nel settore marittimo è gestita da un giovane under 35 e oltre una su cinque da donne. Nel Mezzogiorno e nel Centro Italia si concentra più del 74% delle attività imprenditoriali del Sistema mare (rispettivamente il 48,4% e il 25,9%). Il Lazio è la regione con il maggior numero di aziende blu in Italia, con 35.241 unità, seguita da Campania (32.449) e Sicilia (28.640). Considerando l’incidenza delle imprese del mare sul totale del sistema imprenditoriale regionale, la Liguria si posiziona al primo posto con il 10,5%, seguita da Sardegna (7,2%) e Sicilia (6,0%).

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Design economy: in Italia 15.986 imprese per un valore aggiunto di 2,94 miliardi

In Italia le imprese del design si distribuiscono su tutto il territorio nazionale, con una particolare concentrazione nelle aree di specializzazione del Made in Italy. Il 60% delle aziende si localizza nelle regioni Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto.  A quanto emerge dai dati del report condotto da Design Economy 2023 di Fondazione Symbola, Deloitte Private e POLI.designm, l’industria italiana del design conta 36 mila operatori, 20.320 liberi professionisti e lavoratori autonomi, e 15.986 imprese. Che nel 2021 hanno generato un valore aggiunto pari a 2,94 miliardi di euro, e hanno impiegato 63 mila occupati.

Un’infrastruttura immateriale del Made in Italy

Tra le province del design primeggiano Milano, con il 14,3% delle imprese e il 18,4% di valore aggiunto nazionale, Roma (6,6% e 5,3%), e Torino (5,1% e 13,3%). Una quota pari al 32,8% di imprese opera all’estero, il 24,2% in territori extra EU, il 44,8% su scala nazionale, mentre il 22,4% opera su scala locale.
“La leadership italiana nel design conferma il suo ruolo importante come infrastruttura immateriale del Made in Italy e protagonista nella sfida della sostenibilità”, ha commentato Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola.

Sostenibilità, un tema rilevante per il settore

“Nel pieno di una transizione verde e digitale, il design è chiamato nuovamente a dare forma, senso e bellezza al futuro – ha aggiunto Ermete Realacci -. Molti aspetti della nostra vita, così come molti settori, mutano: dalla metamorfosi della mobilità verso modelli condivisi, interconnessi ed elettrici, ai processi di decarbonizzazione e dell’economia circolare che stanno cambiando l’industria e le relazioni di filiera”.
Il tema della sostenibilità emerge infatti come rilevante per il settore. L’87,4% degli intervistati ne sottolinea l’importanza nei progetti in corso, quota che arriva al 96,5% nel caso delle piccole e medie imprese.

Italia protagonista del nuovo Bauhaus europeo

“I prodotti, in un contesto di risorse scarse, dovranno necessariamente essere riprogettati per diventare più durevoli, riparabili, riutilizzabili – ha sottolineato Realacci, come riferisce Askanews -. Il rapporto tra design e sostenibilità è alla base del nuovo Bauhaus europeo lanciato dalla presidente Von der Leyen per contribuire alla realizzazione del Green Deal europeo. Anche per questo l’Italia ne è una naturale protagonista. Perché, come scritto nel Manifesto di Assisi, affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario, ma rappresenta una grande occasione per rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro”.

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L’Ai entra in azienda: è il futuro della robotica (e non solo)

Qual è il futuro della robotica? La risposta non può che essere l’Intelligenza artificiale. O meglio, l’AI con l’utilizzo dell’Ai no-code a supporto delle decisioni di business. L’interazione dell’Artifical Intelligence generativa con altre tecnologie, come la realtà aumentata e la computer vision, è un altro trend emergente nel mercato dell’IA. A dirlo è Vedrai, esperto in Intelligenza Artificiale. 

Dalla fantascienza alla realtà presente

In passato, spiegare alle aziende italiane l’AI sembrava fantascienza. Le cose sono cambiate completamente e velocemente. Ora il terreno è fertile e le imprese stesse richiedono soluzioni che utilizzano l’AI per rispondere ai loro bisogni. Nel 2023, la spesa di governi e imprese per l’AI supererà i 500 miliardi di dollari, come previsto dal Worldwide Semiannual Artificial Intelligence Tracker. 

Oltre la metà delle aziende globali investe in intelligenza artificiale

In virtù dei cambiamenti che stiamo vivendo, il 51% delle aziende in tutto il mondo sta già investendo in AI, come confermato dal Top 10 Global Consumer Trends 2023. 
L’interesse nei confronti dell’Intelligenza Artificiale, quindi, non si arresta e “interrogarsi sui suoi sviluppi futuri è oggi materia di interesse non più solo per il mondo tecnologico e accademico ma per tutto il comparto economico, in ottica di intercettare nuovi trend e possibili ambiti di investimento” sottolineano gli analisti del gruppo Vedrai specializzato in soluzioni di Intelligenza Artificiale che rivoluzionano il modo in cui imprenditori e manager prendono decisioni in condizioni di incertezza e che studia i mercati emergenti per alimentare la sua strategia di crescita accelerata grazie ad acquisizioni.

I settori che saranno protagonisti del mercato 

“Per Vedrai – afferma Diego Maccarelli, Head of Corporate Finance di Vedrai – identificare i settori che saranno protagonisti del mercato nei prossimi anni è quindi una necessità sia per crescere come Gruppo, sia per stimolare l’innovazione a livello di ecosistema”. La società identifica i settori che saranno protagonisti del mercato nei prossimi anni per stimolare l’innovazione a livello di ecosistema e creare sinergie utili all’ecosistema tecnologico italiano ed europeo. Nonostante le difficoltà del contesto italiano per le startup, Vedrai crede nelle competenze dei talenti locali e nella possibilità di valorizzarli in Italia. La crescita costante del comparto AI è confermata dalle aziende italiane dotate di sempre maggiori competenze e di uno sguardo rivolto ai trend internazionali.

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Il futuro del lavoro: meno in presenza e sempre più ibrido

Appare sempre più chiaro che non si tornerà indietro. Alcuni dei cambiamenti imposti dalla pandemia alle nostre abitudini quotidiane, infatti, sembrano destinati a restare: e tra questi, almeno parzialmente, c’è il modo di lavorare. Ovviamente si intende tra lavoro “classico”, in azienda o in ufficio, e da remoto, una modalità che ha preso piede proprio nei momenti più duri della pandemia. In base agli ultimi dati, si prevede che in Italia solo il 42% dei dipendenti tornerà stabilmente alla proprio sede di lavoro entro due anni, circa la metà del periodo ante Covid. In ogni caso, si tratta di una percentuale maggiore rispetto a quella attuale, che vede solo il 232% di tutti i lavoratori rientrati in modo fisso alla propria scrivania. A rivelarlo sono i risultati della ricerca Benefit Trends Survey 2021-2022 condotta da Willis Towers Watson su un campione di aziende attive nel nostro Paese e rappresentanti circa 155.000 lavoratori.

L’exploit dei modelli ibridi 

La ricerca evidenzia poi che saranno i modelli ibridi – ovvero un po’ in presenza e un po’ a distanza – le modalità di lavoro più diffuse nei prodigi due anni. Saranno quindi ancora in maggioranza rispetto al lavoro totalmente da remoto, sebbene quest’ultimo abbia registrato una percentuale di crescita maggiore lo scorso anno. Nel 2019 la stragrande maggioranza dei dipendenti (82%) lavorava in ufficio. Solo il 12% dei dipendenti si divideva tra casa e ufficio, e il 6% dei dipendenti operava da remoto: oggi invece queste due ultime categorie rappresentano rispettivamente il 31% e il 38%, con un evidente crescita di entrambe.

L’evoluzione dell’immediato futuro

Si assiste però a un riassestamento della percentuale di dipendenti che lavorano solo da remoto (tra due anni scenderanno dal 38% al 23%), mentre stanno aumentando di contro quelli che lavorano in presenza (tra due anni saliranno dal 32% al 42%) e in modalità ibrida (dal 31% al 35%). Sette aziende su dieci (71%), inoltre, progettano oggi di consentire un pieno ritorno in ufficio su base volontaria entro la fine dell’anno, mentre il 47% non sono ancora sicure di quando termineranno i protocolli anti-Covid e solo un 10% prevede di fermarli prima del 2022.
“Il lavoro ibrido è destinato a giocare un ruolo di primo piano in futuro, andando a coprire fino a un terzo della forza lavoro aziendale. Abbiamo sperimentato cambiamenti profondi durante il Covid e le persone hanno bisogno di essere sostenute in questa transizione. Nel passaggio verso la “nuova normalità” le aziende devono concentrarsi sulla employee experience, personalizzando l’offerta di benefit, integrando il wellbeing nei propri programmi e supportando i dipendenti in un contesto di lavoro più agile e flessibile”, spiega Alessandro Brioschi, Health & Benefit Senior Consultant di Willis Towers Watson.

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La tecnologia rende stupidi? Al contrario, esalta le nostre capacità

È noto che della tecnologia non ne possiamo più fare a meno, e che si è arrivati a un utilizzo sempre più massiccio di telefonini e device, ormai entrati nelle nostre vite tanto che non potremmo più rinunciare a essere connessi, comunicare e svolgere molte delle nostre attività quotidiane senza l’ausilio di un dispositivo tecnoogico. Ma è un luogo comune quello per cui la tecnologia e l’uso di smartphone e tablet ci renda ‘stupidi’: sembra infatti che non comprometta le nostre abilità cognitive. Al contrario, le esalta e le convoglia verso ciò che oggi realmente ci serve. In pratica, quello che gli smartphone e la tecnologia digitale sembrano fare è cambiare il modo in cui utilizziamo le nostre capacità cognitive. Lo ha scoperto un articolo dell’Università di Cincinnati, pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour.

Contrordine, gli smartphone non danneggiano le nostre capacità cognitive

“Nonostante i titoli – afferma il professor Anthony Chemero, co-autore dell’articolo – non ci sono prove scientifiche che dimostrino che gli smartphone e la tecnologia digitale danneggino le nostre capacità cognitive biologiche”. Nel documento, il professor Anthony Chemero e i colleghi della Rotman School of Management dell’Università di Toronto espongono l’evoluzione dell’era digitale, spiegando come la tecnologia intelligente integri il pensiero, aiutandoci così a eccellere.

Cambiamenti benefici che liberano energia cerebrale per pensare ad altro

“Quello che gli smartphone e la tecnologia digitale sembrano fare è cambiare il modo in cui utilizziamo le nostre capacità cognitive”, specifica l’esperto, aggiungendo che “questi cambiamenti sono in realtà benefici”.
Un esempio? Lo smartphone conosce la strada per lo stadio in modo che si non debba consultare una mappa cartacea o chiedere indicazioni, il che ‘libera’ energia cerebrale per pensare ad altro. Lo stesso vale in un ambiente professionale. “Non risolviamo complessi problemi matematici con carta e penna o memorizziamo numeri di telefono nel 2021”, aggiunge Chemero.

Svolgere compiti più complessi di quanto potremmo fare da soli

Inoltre, la tecnologia intelligente aumenta le capacità decisionali in situazioni difficili da risolvere da soli, riporta una notizia Ansa. Un esempio pratico? Ad esempio quando ci troviamo in una città dove non siamo mai stati: in questo caso la tecnologia GPS sui telefonini non solo può aiutarci ad arrivare senza problemi in un luogo prestabilito, ma ci consente di scegliere un percorso in base alle condizioni del traffico.
“Il risultato – spiega ancora il professor Chemero – è che, integrati dalla tecnologia, siamo effettivamente in grado di svolgere compiti molto più complessi di quanto potremmo fare unicamente con le nostre capacità biologiche”.

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Quando il video non è quel che sembra è un deepfake

Il fenomeno del deepfake è così recente che prima ancora di sapere cos’è probabilmente ne siamo già stati vittime. Si tratta della tecnica che combina un’immagine reale a un video preesistente, con un effetto talmente realistico da alterare la realtà, come i video dove attori, politici, o personaggi famosi fanno o dicono cose incredibili. La maggior parte di questi video sono pornografici, e recentemente il garante sulla Privacy è intervenuto su un’app che spoglia minorenni, ma una grossa parte viene dedicata ai politici e a loro dichiarazioni rigorosamente false.

Una tecnologia che utilizza il deep learning

Il deepfake è una tecnologia che utilizza una forma di intelligenza artificiale, chiamata deep learning, per creare video di eventi falsi. I falsi possono essere anche solamente audio, tanto che il responsabile della filiale britannica di una società energetica tedesca ha versato diverse decine di migliaia di sterline su un conto bancario dopo essere stato ingannato dalla voce (finta) dell’amministratore delegato tedesco della società. Ma il deepfake non è solo un modo escogitato da truffatori o produttori di cinema porno, sembra infatti che anche i governi stiano iniziando a usarlo, ad esempio, per far circolare falsi video di organizzazioni terroristiche per screditarne i vertici.

Il pericolo di una società zero-trust

Ma qual è il pericolo finale dell’uso di tecnologie come il deepfake? Creare una società zero-trust, in cui le persone dubitano di tutto, persino di quello che vedono con i propri occhi, e non si interessano neanche più di verificare se una cosa è vera o falsa per il solo fatto che può essere manipolata. Basta pensare agli effetti del deepfake sulle intercettazioni audio ambientali, che diventerebbero praticamente inutilizzabili. Si creerebbe una realtà plausibile, ma la cui veridicità rimarrebbe sempre dubbia.

Come costruire un futuro tecnologico sicuro

Negli ultimi 15 anni la tecnologia, l’intelligenza artificiale, la machine learning hanno fatto passi da gigante. Ma se da un lato persiste il profondo desiderio di progresso non manca il timore che la tecnologia possa sfuggire al nostro controllo. Come costruire allora un futuro che abbia a che fare con l’intelligenza artificiale e allo stesso tempo risulti sicuro? E come includere l’intelligenza artificiale per progettare un domani migliore che non rappresenti una minaccia?

Dietro al modo in cui ci relazioniamo con la tecnologia c’è sempre qualcuno che ha pensato all’uso che ne avremmo fatto, progettandone appunto la “usabilità”. E proprio alla usability è dedicata una giornata mondiale, il World Usability Day, che il 12 novembre ha chiamato a raccolta i progettisti del futuro da ogni parte del globo.

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Didattica a distanza e lavoro sono inconciliabili per le mamme

Con i figli a casa da scuola per molte mamme risulta difficile poter continuare a lavorare. Infatti per il 65% delle mamme lavoratrici italiane la didattica a distanza e la professione risultano inconciliabili tra loro. Tanto che il 30% prenderebbe in considerazione l’idea di lasciare il lavoro per seguire i figli, se il ricorso alla Dad dovesse continuare. È quanto emerge da uno studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca a livello nazionale su un campione di 7.000 genitori di circa 10.000 bambini e ragazzi della scuola primaria e secondaria. Al questionario hanno risposto per il 94% madri, con un’età media di 42 anni, e in grande maggioranza con un livello d’istruzione superiore. L’80% di queste sono donne lavoratrici che durante il lockdown hanno continuato a lavorare, il 67% fuori casa, e il 57% in modalità smartworking.

I lati positivi della Dad secondo i genitori

I ricercatori del dipartimento di Scienze umane per la formazione, formato da Giulia Pastori (coordinamento scientifico), Andrea Mangiatordi, Valentina Pagani e Alessandro Pepe, hanno approfondito come sono stati vissuti questi mesi di scuola “in casa” dai genitori, restituendo un bilancio finale e offrendo spunti di riflessione per il futuro. Dall’indagine, dal titolo Che ne pensi? La Dad dal punto di vista dei genitori, è emerso che molti genitori riconoscono come positivo il maggior utilizzo di tecnologie digitali per lo studio e la didattica, così come la possibilità di conoscere meglio le attività didattiche dei propri figli, e l’acquisizione di nuove competenze digitali da parte dei bambini, riporta Adnkronos.

Relazioni a distanza, troppi compiti e il difficile bilanciamento fra lezioni e tempo libero

Dall’indagine emergono però anche le perplessità e le difficoltà dei genitori a dover gestire l’attività scolastica dei propri figli all’interno delle mura domestiche. I genitori intervistati sottolineano infatti anche alcuni importanti aspetti negativi della Dad.

In particolare, le relazioni a distanza con i compagni e con gli insegnanti, la quantità di compiti da svolgere, che viene ritenuta spesso eccessiva, la scarsa varietà nella proposta didattica e il difficile bilanciamento del tempo dedicato alle lezioni, ai compiti e allo svago.

“La ripartenza della scuola è un’emergenza sociale di massima urgenza”

“La ripartenza della scuola, così come di nidi e scuole d’infanzia – spiega Giulia Pastori, coordinatrice scientifica della ricerca – è un’emergenza sociale di massima urgenza che è stata ed è ancora molto trascurata. Bisogna fare tutto il possibile perché ripartano e bene, ne va del benessere di bambini e ragazzi in primis, ma anche dei loro genitori, in particolare delle donne”.

L’esperienza della Dad, “ha reso ancora più evidente che abbiamo bisogno di una politica per la scuola – continua Giulia Pastori – al contempo tempestiva e lungimirante”.

 

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Le competenze digitali più richieste, e il gender gap

Tra le competenze fondamentali per entrare e crescere nel mercato del lavoro oggi rientrano soprattutto quelle in ambito tecnologico e di coding, come la capacità di gestire le funzioni del pacchetto Microsoft Office, i social media, il web design, e il data analytics. E i settori industriali nei quali tali competenze risultano ancora più importanti sono il finance (93%), l’amministrazione (90%), il travel (85%) e la sanità (83%). Il 40% dei recruiter italiani però pensa che in Italia non vi siano abbastanza candidati con le giuste competenze digitali rispetto alle posizioni disponibili. E che in Italia esista un gender gap anche in relazione alle digital skill.

Per i recruiter italiani mancano candidati competenti

Secondo i recruiter italiani le competenze che oggi mancano maggiormente ai professionisti sono proprio quelle in ambito tecnologico e di coding (36%), le capacità di problem solving (31%), la creatività (30%), l’abilità di gestire i tempi di lavoro in maniera corretta (28%), le competenze nell’ambito del web design (28%), la capacità di collaborazione (27%) e il senso di leadership (26%). L’importanza di questo mix di hard e soft skill è confermata anche da una ricerca di LinkedIn dedicata alle competenze più richieste dalle aziende per il 2019. In particolare, la creatività, la collaborazione e il time management sono tra le 5 soft skill maggiormente richieste in ambito business.

Solo il 28% delle donne lavora con l’AI

Per quanto riguarda le digital skill il 45% dei responsabili HR italiani pensa che vi siano più candidati uomini dotati di queste competenze rispetto alle donne, mentre il 25% è convinto del contrario, ovvero, che siano più le donne a essere digitalmente preparate.

Di fatto però solo il 28% delle donne italiane sono impiegate negli ambiti lavorativi legati all’intelligenza artificiale, un settore indicato tra quelli a più alto potenziale di crescita da qui ai prossimi anni.

Manca una corretta formazione in ambito digitale

Si tratta quindi di un gap da colmare quanto prima. Non è un caso che la persistente disparità di genere nel nostro paese sia confermata anche dal recente Global Gender Gap Report del World Economic Forum, che posiziona l’Italia al 70° posto su 149 Paesi.

A oggi, quindi, c’è ancora molto da fare per raggiungere il traguardo di una corretta formazione in ambito digitale. E questo a partire della formazione primaria e secondaria, che dovrebbe preparare le nuove generazioni per il lavoro del prossimo futuro.

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Certificazione digitale, nasce il primo polo europeo

La necessità di certificare l’identità dei clienti online è la sfida principale delle aziende impegnate nel processo di trasformazione digitale. Quando si stipulano accordi online è infatti necessario garantire la certezza delle identità delle parti, e assicurare il valore legale dei documenti sottoscritti durante un accordo. Occorrono quindi strumenti che sappiano conciliare la sicurezza e l’aderenza alla normativa con l’immediatezza e la praticità del mondo digitale.

Garantire la sicurezza delle transazioni commerciali in rete è proprio l’obiettivo del primo polo europeo per la certificazione digitale, nato dalla certification authority italiana InfoCert (Gruppo Tecnoinvestimenti), insieme a Camerfirma, una delle principali autorità di certificazione spagnole.

Un “campione europeo” del digital trust

Nell’era digitale, sia per chi opera a livello locale sia a livello internazionale, la sicurezza delle transazioni e delle comunicazioni è fondamentale. “Grazie all’ingresso in InfoCert Gruppo Tecnoinvestimenti – spiega Alfonso Carcasona, Managing Director di Camerfirma – le sinergie in infrastrutture, innovazione e sviluppo di nuovi prodotti e soluzioni si traducono in benefici tangibili per i nostri clienti attuali e potenziali”. Di sicurezza, mercato unico digitale e strumenti per la certificazione si è discusso a Madrid, nel corso del convegno dal titolo Costruendo il futuro digitale. Dove InfoCert ha dichiarato la propria ambizione a diventare “campione europeo” del digital trust.

Una rampa di lancio per l’espansione nei mercati di Francia, Belgio e Olanda.

La crescita di InfoCert è avvenuta attraverso una strategia di acquisizioni, che ha portato nel 2018 all’acquisizione di Camerfirma, e del 50% di Luxtrust, certification autority del Lussemburgo.

L’acquisizione di Camerfirma è stata la prima pietra miliare del percorso di sviluppo internazionale di InfoCert, cui ha fatto seguito il recente annuncio della sua joint venture paritetica con LuxTrust, il principale fornitore di Trust Services in Lussemburgo. Una vera e propria rampa di lancio per l’espansione di InfoCert nei mercati di Francia, Belgio e Olanda.

L’integrazione delle offerte permette una copertura di mercato più efficace

L’evento di Madrid ha consentito a Camerfirma e InfoCert di “presentarsi a una platea autorevole nel loro comune ruolo di fornitore europeo di servizi fiduciari, ma con solide radici istituzionali nel mercato nazionale spagnolo – dichiara Danilo Cattaneo, Amministratore Delegato di InfoCert Gruppo Tecnoinvestimenti -. L’integrazione delle nostre rispettive offerte ci permette una copertura di mercato più efficace, con servizi più ricchi e capaci di aiutare concretamente le organizzazioni pubbliche e private a rispondere al meglio alle sfide che le attendono”

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In Italia gli occupati tramite agenzia crescono di quasi il 25%

Il 24,6% in più rispetto all’anno precedente: questa è la percentuale di crescita dei lavoratori assunti tramite le agenzie per il lavoro rispetto al 2016. Nel 2017 il numero medio mensile di lavoratori impiegati tramite agenzia è̀ stato infatti pari a 439.373, di cui 36.300 a tempo indeterminato. Lo rileva Assolavoro, l’Associazione di Categoria delle Agenzie per il Lavoro italiane. Attraverso le attività di ricerca e selezione del personale, sempre nel 2017, 52 mila persone poi sono state scelte per essere assunte direttamente dalle aziende committenti. Tutte con profili medio-alti e contratti stabili.

Nel 2017 702 mila contratti di lavoro dipendente

Secondo le rilevazioni internazionali della World Employment Confederation, di cui Assolavoro è l’espressione italiana, in media, prima di trovare lavoro tramite agenzia, il 33% dei lavoratori era disoccupato. Ma coloro che nel corso del 2017 hanno avuto accesso attraverso le agenzie ad almeno un contratto di lavoro dipendente, con la retribuzione quindi prevista dal contratto collettivo nazionale, e tutte le tutele garantite dalla legge, risultano 702 mila. Mentre nel 2016, i contratti per lavoro dipendente, sono stati 624.559, spiega Assolavoro.

Ovviamente i lavoratori in somministrazione, ovvero assunti tramite agenzia,  hanno per legge diritto alla stessa retribuzione, e a tutte le medesime tutele che spettano ai dipendenti diretti dell’azienda presso cui prestano la loro attività

Il 53,7% degli occupati ha meno di 34 anni, e più del 20% non supera i 24 anni

Sono i giovani i più cercati dalle aziende che si avvalgono di un’agenzia per trovare personale. Più della metà, precisamente il 53,7%, dei lavoratori in somministrazione ha infatti meno di 34 anni. In particolare, cresce l’occupazione tramite agenzia per chi non supera i 24 anni: dal 18,7% del totale dei lavoratori in somministrazione del 2016 al 20,1% del 2017, riporta Adnkronos. Inoltre, il 39% dei lavoratori tramite agenzia è costituito da donne.

Almeno un lavoratore in somministrazione su tre, dopo aver lavorato con le agenzie per il lavoro, accede a una occupazione stabile.

450 mila studenti di 500 scuole coinvolte nei progetti di alternanza scuola-lavoro

Per quanto riguarda i progetti di alternanza scuola-lavoro, in un anno le agenzie hanno facilitato futuri percorsi professionali a 450 mila studenti di 500 scuole, attraverso 250 mila ore di alternanza. Principalmente, le ore svolte con l’ausilio di un’agenzia, sono state utilizzate per l’orientamento al mercato del lavoro, la compilazione del curriculum vitae, i consigli su come affrontare un colloquio, e per ottenere una guida all’autoimprenditorialità.

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